Il vaso del secondo piano
Federico sta fuori, forse. In lui c’era un modo strano di ascoltare il mondo. Aveva un’attenzione acuta, direzionata verso ciò che gli altri lasciavano sullo sfondo: il cigolio di una porta in lontananza, un grumo di voci al mercato, l’ombra di una tenda che si muoveva appena. Era come se vivesse ai margini del visibile, dove il reale si sfuma e le cose comuni cominciano a raccontare altre storie.
I suoni, le forme, i momenti gli arrivavano come segnali: non era una costante, ma a tratti, senza preavviso. A volte, in una giornata qualsiasi, un piccolo dettaglio – una coppia che parlava sottovoce, una luce che si rifletteva male su una parete, un oggetto dimenticato per caso – apriva dentro di lui una porta invisibile. E allora accadeva qualcosa. Combinava elementi che per chiunque sarebbero rimasti scollegati.
Non erano sogni. Non erano allucinazioni. Era solo una specie di sistema alternativo per stare al mondo. Uno sguardo di traverso, che dava senso anche al più insignificante dei dettagli. Un’arte, forse.
I palazzi poi, ad esempio, lo attiravano come se custodissero un segreto. Soprattutto la sera, quando il buio lasciava trasparire le stanze illuminate come occhi socchiusi. Alcuni balconi brillavano, altri tacevano, chiusi in un silenzio denso. Le tende si muovevano appena, in certi casi lasciavano intravedere ombre di vita, sagome incerte, piccoli gesti.
Ogni luce sembrava un indizio. Ogni finestra accesa o spenta pareva comunicare qualcosa di più profondo, come se tutto l’edificio stesse tentando di dire qualcosa a chi sapeva osservare. Federico, allora, rimaneva immobile, assorto, scrutando come si scruta una mappa antica in cerca di un passaggio nascosto. Inventava storie e lo faceva con una sorta di timore reverenziale, come se i suoi pensieri potessero sfiorare per davvero le vite là dentro. E gli pareva che quelle vite, in qualche modo, lo sapessero.
Capitò una sera. Era stato fuori con un amico, una serata semplice, birra e discorsi. Lo aveva accompagnato sotto casa, come spesso accade tra amici che non hanno voglia di lasciarsi subito. Restarono in macchina, i finestrini appena abbassati, l’aria tiepida della primavera che entrava piano.
Federico, come gli capitava in certi momenti – quei momenti rari ma intensi in cui il mondo si metteva a brillare di significati invisibili – si ritrovò assorto. Tutto in lui era pronto a lasciarsi attrarre da un dettaglio qualsiasi, a costruire dal nulla storie, nessi, piccoli incantesimi di senso. Aveva sempre vissuto così: con la testa un po’ oltre la realtà, ma mai troppo distante.
Ma quella volta fu diverso.
Il palazzo di fronte lo chiamava, sì, ma con una voce nuova, precisa. E in particolare un balcone. Secondo piano. Da una finestra usciva una luce strana, azzurrina, sfumata da bagliori rossi, come se dietro ci fosse un acquario, o una lampada sbagliata. Ma non era suggestione. Non era un volo pindarico. Quella luce era reale, e stava dicendo qualcosa.
«Guarda» disse, interrompendo l’amico.
Lì, in mezzo a quella luce, si muoveva qualcosa. Un’ombra lunga e curva, come un fusto dentro un vaso. Ma non era un fusto. O forse sì, ma uno che aveva dimenticato di essere pianta. Non tremolava alla brezza come fanno i gerani. Si piegava, si ritraeva, come se reagisse a un richiamo interiore, oppure esterno, ma sconosciuto. Dietro, una seconda ombra più alta, umana, restava immobile. La sua postura, il profilo inclinato, facevano pensare a una strega colta nell’intimità di un rito segreto, protetta dalle mura domestiche. Non la controllava, né sembrava sorprenderla. Piuttosto, la guidava con la sola presenza. E in quell’assistere – o forse dirigere – c’era qualcosa di terribilmente calmo, come chi sa che certe cose accadono, e basta.
L’amico si fece silenzioso. Fissarono entrambi quella scena per lunghi secondi. Poi, quasi all’unisono, scoppiarono in una risata irreale, strozzata, come capita quando si è testimoni di qualcosa che ha dell’assurdo ma non incute timore. Ridevano, sì, ma senza leggerezza: ridevano da complici, consapevoli di aver assistito a qualcosa che nessun altro, fuori da quella macchina, avrebbe potuto capire. Una scena che, raccontata il giorno dopo, si sarebbe dissolta nella banalità, nel dubbio. E allora risero, per custodire quell’istante come si ride davanti a un segreto che non sarà mai davvero spiegato.
Era qualcosa che stava lì, saldo, impossibile da ignorare.
Quella luce, quelle ombre, quell’atmosfera – la pianta pulsante.
Lo videro. Non c’erano dubbi. Era lì, chiara, inequivocabile. Ciò che solitamente era solo gioco e invenzione sembrava aver trovato un riflesso nel reale. Come se il mondo, per un istante soltanto, avesse deciso di rispondere parlando proprio la lingua di Federico.
Federico non avrebbe saputo dire che ora fosse, se passò un minuto o un’ora. Ma da quel momento in poi, ogni volta che passava di lì, alzava lo sguardo al secondo piano.
E il vaso era sempre lì. Immobile. Ma sembrava… in attesa. – complice – .